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10 Settembre 2023 | Tommaso Chiesa

E POI DITECI CHE E’ SOLO UN GIOCO 

(8 Maggio 2023, Fondazione Sacro Cuore)

 

Tommaso Chiesa

Buonasera a tutti, vi do il benvenuto e vi ringrazio di essere venuti qui stasera. La nostra associazione da qualche anno, oltre a proporre corsi sportivi ai ragazzi, sta facendo un percorso di apertura verso una dimensione più culturale dedicata anche ai genitori, come occasione di riscoperta dello sport come grande strumento educativo per tutti. Per questo abbiamo pensato di organizzare questa assemblea, per aiutarci a comprende l’importanza di quello che vivono i nostri figli nel fare sport, ma anche per capire come questo può essere utile per noi stessi. 

Lascio la parola a Mattia, il nostro direttore sportivo agonistica, partiamo!

 

Mattia Fenili

Buonasera a tutti, sono contento che siete qui perché sono sicuro che questo momento di dialogo e confronto possa essere una preziosa occasione per fissare alcune conquiste che abbiamo raggiunto quest’anno, ma soprattutto di tracciare una strada da seguire insieme.

Vorrei innanzitutto spiegarvi la scelta del titolo, un titolo un po’ provocatorio che nasce da un esperienza personale che mi è capitata quest’anno quando dopo mesi di lavoro con la squadra che alleno in cui c’è chi è più avanti e chi è un po’ più indietro nella preparazione, proprio uno dei bimbi che fa più fatica in una partita ad un certo punto è riuscito a fare goal! E tutta la squadra, tutti noi, siamo esplosi in una felicità per lui e per noi! 

Andando a fondo di quella esperienza ci si accorge che il sentimento della gioia non è altro che la superficie, la punta dell’iceberg. Cioè dentro a quel ragazzo, ma a tutti noi presenti, è successo qualcosa dentro. Si è mosso qualcosa che poi ha generato quella emozione. È una emozione figlia di una dinamica elementare che tutti noi abbiamo certamente sperimentato: quando vediamo qualcosa nella realtà di così corrispondente, così vero rispetto a quello che desideriamo, che il nostro cuore desidera.

Perciò non possiamo parlare di sport in generale, come entità astratta, ma dobbiamo partire dal soggetto che lo fa, come dice anche Don Giorgio Pontiggia (dal libro “Bellezza, ascesi, utilità”):

 

“Quello che gli altri vogliono ottenere sono i risultati, l’esaltazione delle capacità attraverso l’esasperazione del risultato.

Mentre noi dobbiamo ottenere questi risultati nella formazione dell’uomo attraverso il calcio.

L’uomo non contraddice il particolare in cui è impegnato se adatta il metodo all’oggetto, perché l’uomo è sempre lo stesso. È sempre esigenza di totalità e di senso e nello sport non può cambiare la sua natura ma deve adeguare il metodo all’oggetto. Non c’è l’uomo sportivo, l’uomo studioso, l’uomo in famiglia ecc. L’uomo è uno ed è il metodo di approccio alla realtà che è diverso.

Noi parliamo alle loro esigenze originali anche nello sport.”

 

Chiedo ora ai nostri ospiti di raccontarci la loro esperienza rispetto a questo punto:

 

Francesco P.

Volevo partire da un esempio che è successo nella società calcistica (di serie A) in cui lavoro, facendo un corso di Match Analyst. Quando c’è un corso è difficile portare i ragazzi perché hanno sonno, non hanno voglia. La prima cosa che ci fanno vedere è il goal che Messi ha fatto agli ottavi di finale ai Mondiali contro l’Australia. Noi ovviamente abbiamo guardato tutte le partite, quel goal è bello ma ci era un po’ scivolato addosso. E’ stato stupendo seguire il professore che ci raccontava perché, per come era messa l’azione c’era solo una linea, una sola traiettoria che la palla poteva prendere a quella velocità per fare goal (lui ha tirato nell’area, aveva quattro difensori davanti e il portiere era dall’altra parte della porta). Tutti gli altri spazi erano chiusi, poi la palla è passata sotto alle gambe ed è entrata in porta. Parto da questo perché di fronte a tutta la noia dei ragazzi un fatto bello, qualcosa che ti stupisce o un’azione particolare come può essere un goal di Messi, ha fatto si che tutti i ragazzi sono usciti dall’incontro esaltati, con la prima preoccupazione non di dire ”come faccio a diventare come Messi”(anche perché il paragone è molto arduo), ma di dirsi “giocare così piacerebbe anche a me”. E’ stato bellissimo nei giorni successivi vedere come solo di fronte ad una bellezza o a qualcosa che ti stupisce tu sei disposto a far fatica, a iniziare ad allenarti in un certo modo. Non per un’idea o un’immagine ma perchè vedi qualcosa di bello che suscita il tuo interesse. Il secondo punto di cui hai parlato è che l’uomo è sempre esigenza di totalità e di senso. Mi ha colpito questo: io sto con dei ragazzi che sembra che apparentemente abbiano tutto, giocano per una grande società, tendenzialmente sono tutti belli, stanno bene, tutti i giorni giocano a calcio (chi non vorrebbe giocare tutti i giorni a calcio). Quindi sembrerebbe che abbiano tutto e quindi è più difficile accompagnarli nella scuola. C’era un ragazzo che cercavo di svegliare ogni mattina per farlo andare a scuola e per mesi arrivava sempre in ritardo di 40 minuti, anche se noi abbiamo la scuola dentro e deve fare solo una rampa di scale. Le ho provate tutte: lo svegliavo un po’ prima, gli facevo un certo tipo di discorso, lo sanzionavo, toglievo le uscite, ma niente.

Succede che incontriamo un giocatore di calcio molto famoso e a un certo punto, rispondendo alla domanda di un ragazzo lui dice: ”comunque il criterio con cui dovete scegliere in che squadra andare non è quanto vi pagano ma dove siete più felici, secondo voi”. E ha fatto degli esempi nella sua carriera in cui alcune squadre gli offrivano molto di più ma lui è voluto rimanere perché si divertiva di più, c’era un gruppo di amici e imparava di più a giocare. In tutto l’incontro io cercavo di intercettare lo sguardo di questo ragazzo, perché il tema lo riguardava da vicino. Mi ha stupito che, finito l’incontro, ci siamo incontrati fuori e lui mi ha detto: ”io voglio essere contento, come te e come lui, domani scuola”.

Il giorno dopo era fuori dalla porta di camera sua puntuale che mi aspettava. 

Dico questo perché questa esigenza di totalità, questo desiderio di felicità, anche quando apparentemente sembra che si abbia tutto, colpisce, ti sfiora, ti ferisce. Ce l’abbiamo tutti. Per me la sfida grande e bella con loro è accompagnarli quando accade che questo desiderio si riapre. Perché l’uomo è uno, non c’è l’uomo studioso, l’uomo sportivo, l’uomo è uno e quando tu vedi uno così, poi ti interessa anche andare a scuola, ad allenarti, perché paragoni tutto quello che tu fai con questo desiderio ultimo che hai.

Sono contento di essere qua perché anche su di me, nel mio ruolo da educatore, vedo questo, che ho bisogno di essere aiutato ad essere disponibile ad assecondare quello che la realtà chiede, a piegarmi al soggetto. Per questo questi incontri, questi dialoghi mi aiutano sempre. Vorrei fare un altro esempio.

Rispetto a questo, in un’altra società in cui ho lavorato mi ha colpito tantissimo un dialogo con un allenatore. C’era un ragazzo a cui nessuno passava mai la palla, perché quando passavano la palla a lui la palla usciva. E quando uno gioca istintivamente ti viene da passarla a quello più bravo o almeno a quello che sei sicuro che tiene la palla nel campo. Il ragazzo poi era molto timido e piano piano è stato un po’ escluso dalla squadra. Racconto questo perché mi ha colpito molto l’approccio di questo allenatore, come esempio dell’essere disponibili a piegarsi a quello che succede nella realtà. L’allenatore è andato dal ragazzo e invece di dirgli di impegnarsi di più gi ha chiesto: ”Ma secondo te perché non ti passano la palla?” E lui ha risposto: ”Perché non so stoppare”. Allora lui ha iniziato a fare degli allenamenti a tutti sullo stoppare la palla e poi gli ha proposto di arrivare prima per aiutarlo. E’ stato bellissimo perché la conseguenza è stata che lui ha iniziato a giocare titolare, si è creata una bella amicizia, ma quello che ho imparato è che i ragazzi sono fatti bene come sono fatti. Questo ragazzo non dovevamo cambiarlo, ma siamo fatti bene, siamo fatti giusti. La cosa interessante è non avere la preoccupazione di cambiare l’altro, ma farti interrogare da quello che succede nei ragazzi, durante un gioco. Per questo mi stupiva la domanda di quell’allenatore, che si fa interrogare da quello che succede e da lì poi si gioca la partita con il ragazzo.

L’ultimissima cosa rispetto a questo, che ho vissuto io in prima persona, è che io sono stato uno sportivo tempo fa, ho avuto una carriera becera e di poco tempo però giocavo a basket con quelli un po’ più grandi ed ero playmaker. Quell’anno era iniziato il campionato e noi eravamo sfavoriti perché giocavamo con squadre forti. AI tempi c’erano quei giornalini che scrivevano che eravamo sfavoriti e mi ricordo la mia allenatrice, Claudia, che ci legge questo pezzo di giornale e ci dice:” Secondo me voi siete molto di più di quello che dicono gli altri”. Allora iniziammo questo campionato e eravamo forti, vincevamo. Tra di noi, guardando lei, si è creata un’amicizia veramente bella e ci divertivamo tantissimo. Andammo avanti e arrivammo alle semifinali, cosa che nessuno si aspettava. Succede un finimondo: la mia allenatrice viene espulsa dopo il primo quarto, io vengo espulso subito dopo e il capitano che era una persona che non aveva mai sbagliato una virgola viene espulso anche lui. Quindi ci troviamo tutti e tre negli spogliatoi e io mi ricordo che provavo una tristezza incredibile perché pensavo che tutto quello che avevamo fatto quell’anno fosse perso: l’amicizia, il divertimento, perché avevamo rovinato tutto e in primis anche l’allenatore, l’adulto. Finisce la partita, perdiamo, torniamo agli allenamenti e io mi ricordo l’allenatrice che ci guarda e ci chiede scusa e poi abbiamo fatto una partitella con degli schemi che era il nostro esercizio preferito e abbiamo giocato con lei.

Racconto questo perché in quel momento ci siamo divertiti talmente tanto che la sconfitta è passata in secondo piano e ha vinto tutto il percorso di quell’anno, cioè la bellezza che avevamo vissuto tutti insieme. Questo è stato possibile, per la mia esperienza, solo di fronte ad un allenatore così, che ti stima innanzitutto e ti guarda ma soprattutto si guarda con questo bene. Per questo potremmo parlare per un anno di analogia tra sport e vita, ma questo aspetto è quello che mi ha colpito di più perché quante volte nella vita mi succede di rovinare le cose, ma quante volte sono ripreso dallo sguardo di bene di un altro. Infatti l’ultima cosa che volevo citarvi del libro “Bellezza, ascesi, utilità” è una cosa molto semplice che però quando l’ho letta ho pensato che solo per questo varrebbe la pena fare sport.  Questo libro per me è stato ed è meraviglioso. Ad un certo punto don Giorgio Pontiggia dice: “Lo sport è analogia della vita, ma dov’è la differenza? Nello sport si parte da un interesse ludico, quasi istintivo, mentre nella vita si deve fare i conti con la realtà che si impone. E dato che si parte sempre da ciò che è più facile per arrivare al più difficile, da questo punto di vista lo sport è un grosso aiuto”. Anche con i miei ragazzi lo vedo, tutti hanno interesse a stare di fronte alla vita e se lo sport è uno strumento che aiuta questo, siccome questo è un interesse decisivo per me e per tutti, è interessante affrontarlo.

 

Giancarlo Ronchi

Ringrazio anch’io per l’invito di stasera, con Tommaso ogni tanto ci sentiamo, Mattia lo conosco da quando era bambino e andavamo anche in vacanza insieme con le famiglie. Io torno qui dopo anni, perché ho allenato alla Polisportiva negli anni in cui abbiamo raccolto queste testimonianze e questi giudizi sullo sport (presenti nel testo “Bellezza, ascesi, utilità”). Quindi per me è un ritorno, ho fatto una quindicina d’anni allenando un po’ tutte le categorie, poi dopo ho collaborato con il Milan per una decina d’anni alle vacanze sportive della Milan Academy.

Innanzi tutto una precisazione sul titolo di stasera “E poi diteci che è solo un gioco”, perché ha creato subito nei puristi delle parole una certa confusione. Certo che è solo un gioco, infatti il titolo non voleva negare questo. Lo dico perché in una chat di allenatori, insegnanti questo titolo ha suscitato un po’ di movimento molto positivo. E’ vero che è un gioco, è assolutamente un gioco e un gioco è caratterizzato proprio dalla creatività dall’attesa di potersi esprimere liberamente in un certo spazio, in un certo ambito, senza avere il problema immediato della prestazione e del risultato. Quindi è libero, non ha immediatamente un tornaconto e in questo senso è un gioco. Ma proprio perché è un gioco e proprio perché è una condizione privilegiata per imparare, perché è voluto, è desiderato dai bambini, diventa una grandiosa occasione educativa se l’adulto che è presente la sa cogliere. Rimane un gioco, ma non è un parcheggio, non è un posteggio, non è un metter lì i figli perché logisticamente mi risolve la settimana. Può essere anche questo perché sono stato anch’io genitore di due figli che hanno fatto sport e quindi ci sta anche questo, ma io devo sapere che profondità di sfide c’è in quell’ora in cui lascio mio figlio. Devo essere consapevole che non è solo un posteggio e che l’occasione che si offre è veramente grande per un cambiamento, per una possibilità di incidere su qualcosa nella crescita di questi ragazzi. E’ questo quindi il chiarimento sul titolo, che rimane un gioco ma proprio perché è un gioco e i ragazzi sono lì per quello che sono e per quello che aspettano, attendono, si possono mettere in moto dei dinamismi molto profondi che magari in altre situazioni più costrette non vengono fuori. La prima cosa che mi viene in mente, riprendendo quello che ha detto Checco, è che lo sguardo di questi ragazzi è proprio il segno che c’è in ballo qualcos’altro, qualcosa di grande, in quella partita, in quell’allenamento, nel corso che uno fa. Lì c’è in ballo proprio il desiderio dei ragazzi di realizzarsi, cioè di poter fare qualcosa tanto da scoprire che riesco a fare delle cose che neanche mi immaginavo. Il desiderio di realizzarmi, il desiderio di vedere fin dove mi posso spingere. E questo io penso che chi ha giocato un po’ l’abbia vissuto. Io frequentavo l’oratorio di Feltre e si poteva giocare anche quando diventava buio perché c’erano le luci delle case vicine, quindi andavamo avanti. Usciva il prete di allora, don Paolo Casati alle sette di sera a mandarci a casa.

Eravamo in tre o quattro scalmanati che continuavamo a tirare le punizioni, le rovesciate, anche al semibuio, Ma cosa ci interessava? L’ho capito dopo, quando abbiamo incontrato don Giussani e dopo l’Isef abbiamo fatto degli incontri con lui, che diceva proprio la frase che ha citato Checco. Lo sport esprime questa bellezza che è la tensione a compiersi attraverso lo strumento che è il corpo, il ritmo l’equilibrio, i muscoli. E’ questa bellezza che non è solo la bellezza plastica del gesto sportivo, ma è questa corrispondenza ad una cosa che ti prende, ti riempie e ti fa dire che la vuoi ancora. Giussani era così profetico ed intelligente da capire qual era la mossa che ci muoveva quando avevamo vent’anni, cioè il desiderio di realizzare la propria vita  oppure, detto con una parola semplice, il desiderio di felicità che è uguale nei bambini come in noi adulti, chiaramente modulato in modi diversi e con attese diverse, ma è lo stesso identico desiderio.

In un incontro in Aula Magna al Sacro Cuore con Nino Benvenuti lui diceva: “ Ma pensate quale passione, quale attrattiva ha vissuto quest’uomo e da qui quale ascesi”. Ascesi nel senso dell’impegno, del sacrificio, della devozione a quello che si fa. Cosa può muovere questo? Noi tendiamo ormai a richiamare all’impegno delle regole senza richiamare alla bellezza di ciò a cui i ragazzi sono destinati, la bellezza che li attrae. Diventa un richiamo spesso un po’ formale di regole, di impegno: bisogna faticare, bisogna fare le cose bene, bisogna, bisogna. Ma perché? Perché c’è in ballo un’opportunità per te di un passettino in più di realizzazione di te, di scoperta di te. Questo fonda un’utilità nella vita. Quando Giussani l’ha detto non c’era ancora tutta la tempesta informatica in cui siamo immersi. Lui non lo sapeva ma diceva che chi fa sport è più sereno, scarica le tensioni, non litiga con i genitori, è più tranquillo anche con la propria ragazza. Se potesse dire oggi quale utilità ha l’attività sportiva (e questo secondo me è uno dei punti importantissimi oggi per dire perché non è solo un gioco) direbbe che forse è una delle ultime occasioni in cui i ragazzi entrano senza poter fingere di essere un’altra cosa. Non si può fare un’attività come quella descritta a metà, non si può fare solo con la testa o con il corpo o con i sentimenti o con le emozioni. C’è bisogno di tutto e quindi è una delle ultime barriere, delle occasioni perché i nostri figli possano fare un’esperienza di vita reale, non virtuale. Negli ultimi anni in cui insegnavo in un liceo a Sesto le mie allieve innanzi tutto si rifiutavano di fare le gare perché volevano essere sicure del risultato (e quindi c’era una paura di fondo sulla prestazione) e poi erano determinate dalla loro presenza sui social che andava alla grande perché quando ti senti stretto puoi scappare via, andare da un’altra parte, scomparire dalla rete, non farti più toccare. Ma quando fai l’attività sportiva con i tuoi amici tu sei quello che sei, fai le cose bene o male, scopri che puoi sbagliare e che l’errore se c’è un allenatore intelligente, non è l’ultima parola su di te e il risultato non è l’ultimo orizzonte a cui guardiamo. Ci interessa il risultato, perché non dobbiamo fare neanche l’errore opposto. Quando una volta a Milano si facevano le classifiche di campionato degli enti promozione senza classifiche, il calo delle adesioni è stato traumatico perché i ragazzini volevano sapere se avevano vinto o perso e dove erano in classifica, giustamente. Quindi dentro questa logica, ma con l’occhio teso a guardare i ragazzi per quello che sono. Tu sei più grande della tua prestazione, più grande della sconfitta, io ti guardo così e ti stimo per quello che sei. Dentro quest’ora si giocano tanti aspetti, anche la capacità di stare dentro alla realtà. La capacità di attenzione adesso è calata tantissimo, ci sono degli studi che dicono che seguendo le pupille dei ragazzi si può produrre un testo; una volta c’erano tutte le righe, adesso si disegna una Z perché si legge una prima riga, poi taglio di traverso e leggo l’ultima. Si è drasticamente ridotta la capacità di stare attenti a quello che c’è, a quello che succede, a quello che voglio scoprire. Quindi la prima cosa importante è che l’oggetto che voglio fare mio richiede di mettermi in gioco, non posso farlo mio in un altro modo. Don Giorgio Pontiggia diceva che non si può mettere la cassetta dell’Inter sotto il cuscino per imparare a giocare. Devo stare alle condizioni.

A me è capitato di avere una squadra che dopo aver vinto un po’ di partite si chiedeva se doveva ancora allenarsi per forza con tutto l’impegno atletico, tecnico, tattico, di motivazione e avrebbe preferito divertirsi. Invece facendo così perdi quello che hai guadagnato, perché l’oggetto, cioè imparare a giocare e mantenere un certo livello di gioco richiede una strada che non ci inventiamo noi ma è determinata da quello che vogliamo fare nostro. Immaginate un bambino che impara ad essere serio, impegnato, ad ascoltare l’istruttore, l’allenatore: la strada è quella lì, deve imparare a guardare e stare attento. 

Oppure l’altro aspetto è dell’importanza di scoprire che c’è la realtà, che non è tutto virtuale. Nei giochi di squadra i fattori fondamentali sono la persona, l’attrezzo (palla o racchetta), il compagno, l’avversario, lo spazio e il tempo. Guardate quante cose ci sono dentro all’ora in cui i ragazzi si allenano. Questo vuol dire imparare dentro una circostanza che mi piace, non come a scuola che è obbligatoria dove devo studiare perché l’ha detto la maestra. Può accadere di imparare, se c’è una modalità intelligente di insegnarlo, questo approccio alla realtà, questa attenzione, questa capacità di anticipare. Mettersi con un pensiero strategico dentro a una situazione. Questo vuol dire tanto, sicuramente ci vuole un’attenzione particolare da parte degli allenatori a impostare un lavoro che permette ai ragazzi di essere sempre in azione, alla ricerca di situazioni nuove nel tentativo di dar loro le risposte.

Un’altra cosa importante è la scoperta che si può anche perdere perché c’è il limite, ma se io imparo a vivere il limite nello sport, anche nella mia vita imparerò che non è tutto nelle mie mani, che non posso fare tutto come oggi viene detto, basta volerlo. Quando ci sono gli atleti delle Olimpiadi o dei Mondiali o li divido sempre in due categorie: quelli che riconoscono che la vita è data ed è dato tutto, anche il fatto che uno non si infortuni e riesca a completare un quadriennio atletico e quelli che pensano che dipenda solo da loro.

Io posso organizzare tutta la partita, ma la partita la devo giocare. La previsione è questa ma succede qualcosa che cambia il risultato. Bisogna capire che la realtà non è in mano mia, che io sono chiamato a capire bene che ho la libertà, che il talento che ho voglio che cresca, come diceva il Papa nella sua intervista sullo sport. Il talento ce l’hanno tutti, ma il talento senza il lavoro e la libertà di un impegno non cresce.

Tutte queste cose mi fanno dire che non è solo un’ora di parcheggio, non ultimo la scoperta che quello che desideri dentro lo sport è solo la finestra di una cosa grande che desideriamo sempre. Mi è capitato con una squadra di vincere il campionato e sembrava l’ideale raggiunto. Al primo allenamento vedo i ragazzi tutti mogi, spenti e chiedo il motivo. Uno ha risposto: “Noi pensavamo di rimanere felici ma siamo di nuovo da capo”. Questa è la cosa più grande che gli poteva capitare di capire: noi abbiamo raggiunto il risultato, il modo in cui lo abbiamo raggiunto non ve lo toglie più nessuno, se avete lavorato, se siete stati assieme in un modo vero per conseguire questo risultato mettendovi in gioco con fatica e sacrificio. Però capite che non basta, vincere nello sport è come la finestra per capire che il proprio cuore ha un desiderio ancora più grande. Potrei vincere tutti i campionati e non potrebbe bastare ancora, come gli atleti più intelligenti sanno riconoscere. Allora, cogliere questa profondità dentro il rapporto con la propria squadra vale la pena, altro che un gioco. Certo, è un gioco, ma quanti aspetti ha dentro nello spazio di un anno di lavoro di squadra, di arrabbiature, di cose belle, di scoperte. La partita si gioca non in modo spontaneistico, ma se c’è una presenza, se c’è qualcuno fra gli allenatori e i dirigenti che guarda questa attività e questi ragazzi in questo modo, consapevole della sfida enorme che c’è dentro. 

 

Mattia Fenili

Al netto di aver capito che in ballo c’è molto, ti chiederei un affondo sul genitore che ha un ruolo fondamentale. Come il genitore può aiutare il proprio figlio a vivere l’esperienza di sport all’altezza del suo desiderio? Mi piacerebbe avere un cammino da fare insieme su questo, partendo da quello che abbiamo detto finora.

 

Giancarlo Ronchi

La questione da una parte è enorme, dall’altra è semplice. Innanzi tutto il modo per aiutare i figli è non barare. Mi ricordo un incontro in cui don Eugenio aveva detto: “Voi parlate di educazione, ma quanti di voi sotto sotto a casa, nel modo in cui guardate le partite alla televisione comunicate ai propri figli l’idea che lì sta la felicità, la risoluzione della tua vita. Che se raggiungi quel livello di sport praticato in modo professionistico, allora dopo risolvi. Attenzione, perché i primi a dover cambiare siamo noi, allenatori per l’aspettativa che spesso hanno sulla propria squadra come trampolino per sé e genitori per lo sguardo che hanno nella loro aspettativa. 

La prima cosa è proprio essere netti con se stessi: io cosa voglio da mio figlio dentro questa attività? Io voglio il suo bene e la modalità con cui questo si avvera è una sorta di presenza e di distanza, contemporaneamente. Di presenza perché è importante seguire la squadra del figlio, fino a una certa età, poi dopo gli dai fastidio, ma è nella dinamica del processo educativo. Ma quel genitore deve essere capace di avere presente il bene del bambino, che non è il risultato che hai in mente, lo schema che deve essere applicato, il minutaggio del figlio…

E’ invece questo sguardo presente ma distaccato, nella distanza, vedere tuo figlio per quello che è e per quello che sta vivendo in quella circostanza. Magari perdono le partite ma tuo figlio viene a casa contento perché ha giocato mezzora, è migliorato in qualcosa e porta a casa questo. Guardate che i ragazzi non si fanno tante menate su quanto giocano, soprattutto se non ci sono i genitori che li pressano. A loro interessa essere dentro un’unità, sentirsi dentro, essere parte di uno stesso corpo. Capiscono benissimo andando avanti quanto possono dare, che il compagno è più forte e loro devono ancora migliorare. I problemi spesso li hanno i genitori rispetto all’aspettativa che hanno. Presenza con un distacco.

Diceva Rossettini che ha giocato quindici anni in serie A: “Quando ho iniziato con le giovanili del Padova c’erano tutti i genitori accaldati; mio papà era l’unico che stava in tribuna laterale a leggere e quando segnavo gli altri genitori lo avvisavano e lui guardava e poi tornava a leggere. Lui è diventato un signor calciatore, uno con la testa, è stato uno dei presidenti dell’Associazione Calciatori che poi ci ha concesso di andare a Kampala a fare il corso di calcio alla Giussani School con l’Associazione Calciatori, per dire l’orizzonte che aveva. Suo padre era interessato, era presente, però si fidava di quello che faceva il figlio senza mettergli pressione. Dopo, in tutte le città dove ha giocato, quello che gli serviva finita la partita era avere un luogo, uno sguardo su di sé da parte di una famiglia amica dove andava a riposare. Così si risentiva uomo completo perché era guardato per quello che era, con questo desiderio di umanità e non per la prestazione fatta allo stadio. Lui diceva che questo lo aveva salvato e aveva mantenuto il suo desiderio vero. Se è vero per lui è vero anche per i nostri ragazzi, che possano tornare a casa sereni.

C’era un papà di un ragazzo nella categoria Allievi che riprendeva tutte le azioni per poi rivederle a casa e vedere quello che era fatto bene o male. Comunicava un carico incredibile al figlio.

Per essere liberi da questo noi dobbiamo guardare un’altra cosa, una cosa più grande anche dello sport, dobbiamo avere un punto di dialogo tra allenatori e genitori che rilanci sempre con l’aiuto di educatori, di don Pepe, per guardare i ragazzi così. Se no anche l’allenatore quando i genitori gli dicono che sta perdendo un po’ troppo non sa più cosa dire. L’unità tra allenatore e genitori è fondamentale.

 

Mattia Fenili

Mi interessa il tema vittoria-sconfitta, perché tra il grande campione dell’Inter e i miei ragazzini non mi sembra che ci sia una grande differenza per quello che abbiamo detto del cuore e del desiderio. Nell’ambiente in cui vivi tu Francesco però non è secondario vincere o perdere, quindi vorrei capire come la vivi tu nel rapporto con i tuoi ragazzi e come vivono loro la vittoria e la sconfitta.

 

Francesco P.

Sicuramente bisogna guardare qualcosa di più grande per stare di fronte ai ragazzi e lasciarli liberi, perché è vero che nel calcio a quei livelli vivi in una mentalità in cui tu vali per quello che riesci a fare, a maggior ragione se sei pagato e il tuo scopo è fare goal, se non segni diventa un problema, per la società e per te stesso che inizi a guardarti per quello che non riesce. E’ una dinamica che accade sempre. Il rischio che vedo io molte volte è dire che non c’è solo il calcio, c’è anche molto altro. E’ verissimo, ma se perdi il derby non è che torni in convitto e sei contento. Loro hanno tanto questo giudizio su di loro e il mondo li guarda così. Quello che io vedo nel rapporto educativo con loro è che in fin dei conti tutti hanno l’esigenza di essere voluti bene e mi accorgo di questo perché quando si perde, quando sentono che non sono riusciti, cercano il rapporto con un adulto. Quello che mi colpisce nel dialogo con loro è che tu puoi guardarli non per quello che fanno perché in primis sei stato guardato tu perché ci sei, perché ci sono dei luoghi che ti ricordano che c’è molto altro oltre a una riuscita.

Racconto un episodio personale: io mi affeziono sempre ai ragazzi un po’ fuori di testa, che nella vita sono in difficoltà e a calcio sono i più forti. C’era un ragazzo che era arrivato come una promessa e invece non riusciva a fare niente. Ovviamente questo incideva su tutti i lati della vita, si arrabbiava tantissimo con me, con gli amici. Io lo aspettavo sempre, non perché dovessi cambiare qualcosa in lui, ma perché dentro questa domanda e sofferenza ero interrogato, senza grandi discorsi ma con una presenza discreta, lontana per cui si accorgono che tu li stimi e ricominci sempre con loro. Questo ragazzo poi si è innamorato e ha fatto una grande fine stagione, finisce l’anno e nel salutarci mi dice: “Posso andare a giocare in Champions League, ma la cosa più bella che mi è successa quest’anno è stata essere voluto bene da te”. Se io facessi un bilancio educativo con lui, è stato tutto un fallimento, non c’è stato un momento in cui ha risposto bene alla cuoca, al professore, eppure questa cosa che mi ha detto mi ha impressionato perché anche l’errore è un pezzo del cammino e proprio dentro l’errore e la sconfitta ti accorgi che hai bisogno di un rapporto, di qualcuno che ti voglia bene. Questo è possibile sia nello sport che nella vita. Tu sei dentro il mondo che ti guarda così, ma siccome nello sport non puoi barare con te stesso, questo ti aiuta anche a non barare negli altri aspetti della vita, tant’è vero che se sei triste sei triste però questo bisogno di essere voluti bene è una costante. Quindi anche nella relazione educativa non c’è vittoria o sconfitta, ma c’è questo continuo ricominciare.

 

Giancarlo Ronchi

Tutti nella vittoria o nella sconfitta cercano una sola cosa: una preferenza per sé, dentro la vittoria e dentro la sconfitta. Tutti vogliono una preferenza, tu ne hai quindici e devi trovare il modo con cui guardarli perché ognuno si senta una preferenza addosso da parte del tuo sguardo. I campi in cui vincere e perdere sono tanti, gli obiettivi da valorizzare sono tanti: c’è la prestazione, ma la prestazione come la raggiungo? Con il gioco e il gioco come lo raggiungo? Con un’attenzione. Allora ai ragazzi posso dire: “Abbiamo perso, ma non abbiamo mai giocato così bene e al ritorno questa squadra la affrontiamo in un modo diverso, se noi continuiamo a crescere. Questa è una vittoria e io devo essere in grado di sottolineargliela. Perché il risultato è il risultato ma se andiamo avanti così lo raggiungeremo, perché stiamo vincendo su altri obiettivi: sapersi aiutare, sacrificarsi per un compagno, essere attenti… Il ventaglio di obiettivi possibili su cui dire vittoria o sconfitta è ampio, ma sempre perché ho presente te nella tua interezza e mi interessano dell’oggetto che voglio fare mio tutti gli aspetti, tattico, tecnico, atletico. Infatti qualche soddisfazione nel girone di ritorno te la prendi perché all’andata non conosci gli avversari, stai crescendo, fai giocare i ragazzini che hanno bisogno di ingranare, trovare le misure tra di loro e perdi. Ma tu devi essere in grado di dire “perdiamo ma stiamo migliorando, stiamo vincendo sotto questi aspetti” e se un ragazzino capisce questo va a casa comunque contento, anche se ha il muso perché ha perso.

 

Andrea Capetta

Puoi darci qualche indicazione di attenzione da seguire come società dal punto di vista dei dirigenti?

 

Giancarlo Ronchi

Mi vengono in mente alcune cose. La prima è che si è insieme, si è alleati, ma questo penso che si possa percepire come un dato di fatto in questa società. I genitori fanno parte di un progetto educativo. E’ importante essere chiari negli obiettivi e nei ruoli. Negli obiettivi vuol dire definire gli obiettivi agonistici: dove devono migliorare, cosa devono arrivare a fare dal punto di vista fisico, atletico, tecnico, tattico. Ma come devono arrivarci? A quali altri obiettivi puntiamo? Ci deve essere una condivisione iniziale perché sia chiara la proposta e cioè che a noi interessa tutto l’umano. Adesso si parla molto di life skills, di aspetti anche comportamentali, di saper gestire l’emotività, di un pensiero strategico che vuol dire la scelta della soluzione più adeguata in quel momento, di una serietà nell’impegno, di un’attenzione alle condizioni che il gruppo si dà di attenzione, saper telefonare quando uno non sta bene, la famiglia che si rende disponibile… Sono una serie di punti in cui si chiarisce qual è il percorso che è certamente sportivo e agonistico, ma non solo. Se io non preciso all’inizio gli obiettivi poi non posso verificare dove sto andando. Invece a metà anno è interessante fare un punto sui ragazzi su questi aspetti e non sulle classifiche. I ragazzi stanno imparando ad essere precisi, a farsi la borsa, a studiare prima dell’allenamento…? E poi un momento conclusivo.

Non posso fare una verifica di come sto andando se non ho chiari gli obiettivi che voglio raggiungere.

La seconda cosa è la chiarezza dei ruoli: chi si occupa di che cosa e chi risponde di che cosa. Il genitore che si mette a disposizione deve stare attento al fatto che i ragazzi guardano come lo staff, l’allenatore e i dirigenti si rapportano tra di loro, se andate dalla stessa parte, ognuno rispettando il proprio ruolo. E’ grande l’impegno e la responsabilità dei genitori che si coinvolgono, per la generosità che offrono ma soprattutto per questa tensione all’unità per chi guida la squadra e li vede tutte le settimane sul campo per andare tutti dalla stessa parte.

Quindi obiettivi chiari e chiarezza dei ruoli, con una possibilità di verificarli in un dialogo sereno. Non è sempre facile.

A Como per Cometa  seguo una squadra di esordienti dove ci sono molte situazioni borderline per cui non riesci a tenerli attenti per ascoltare l’esercizio. E’ una situazione particolare, però ci diamo degli obiettivi, verifichiamo dove miglioriamo e camminiamo nella stessa direzione. Queste modalità sono fondamentali, se no facciamo come altre società in cui i genitori o danno una mano oppure non vogliamo vederli. A noi interessa un coinvolgimento non formale ma sostanziale da parte di chi si dà disponibile. Nelle realtà in cui sono stato questo è fondamentale. I grandi disastri si verificano quando non si dice niente, la squadra inizia il campionato, c’è chi parla direttamente con l’allenatore, chi non osa intervenire e si iniziano a creare degli scompensi. Poi c’è in più una figura intermedia come il direttore tecnico o sportivo che possa mediare le situazioni di crisi tra i genitori e l’allenatore, così che l’allenatore non sia da solo ma portato da una realtà a cui è legato, non perché deve difendere un ruolo ma per approfondire meglio senza estremismi il bene dei ragazzi. 

 

Tommaso Chiesa

A me colpisce moltissimo dei temi che avete raccontato oggi che i ragazzi affrontano tutti i giorni il tema della performance, il rapporto con il mister, con i compagni di squadra e questi sono temi che in realtà io vedo ripetersi nella vita, in particolare nel mondo del lavoro. Io tutti i giorni ho a che fare con temi simili: la performance lavorativa, l’ambizione di avere una responsabilità maggiore lavorativa, il rapporto con il mio capo che potrebbe essere una specie di mister, il rapporto con il team… Sono tutte dinamiche che rivedo e che mi creano molto spesso ansia e stress e molte volte sono portato a pensare che sono definito da come la mia vita riesce in quell’ambito. Sono contento per mio figlio e anche un po’ invidioso perché ha a disposizione la possibilità di crescere su queste tematiche da piccolo. Io non ho mai fatto uno sport in maniera continuativa e dunque mi sono perso questa opportunità. Ma di fronte alla domanda se c’è una possibilità anche per noi genitori, per noi lavoratori, di riuscire a intercettare questa dinamica di educazione che avete descritto per poter concepire il lavoro nella giusta dimensione e non come se fosse la cosa totalizzante della nostra vita penso che una possibile risposta sia proprio implicarsi  in un luogo di amicizia, ad esempio nell’asd; gratuitamente dare del tempo a questa piccola opera assorbendo e giudicando con gli altri genitori di questi temi. E così ho scoperto che questo mi sta aiutando molto sul lavoro, nel dare le giuste priorità alle cose, nel vivere i rapporti con capo e colleghi in modo più vero e nel capire che non dipende tutto da me.

 

Giancarlo Ronchi

Io vado a vedere nei miei figli quello che mi determina prima. Quindi se io sono tutto concentrato sulla prestazione tendenzialmente comunico questo aspetto. Per questo la cosa più importante è dove guardi tu genitore, a cosa guardi, chi ti fa essere veramente te stesso, libero dalla prestazione. Magari è un luogo di amici, la parrocchia, l’asd stessa, un luogo di persone che ti richiamano alla tua umanità vera. Perché io non posso comunicare se non quello che vivo, è come un bicchiere, se lo riempio viene fuori quello che c’è dentro. 

 

Davide Storti

Io alleno le elementari e mi interessava quando parlavi del non barare e del fatto che i ragazzini si rendono conto di tutto; infatti se arrivo arrabbiato dall’università vedo che loro se ne accorgono. Allora mi chiedo fino a quando il non barare con quello che tu sei è un’occasione per loro, perché se no diventa uno sforzo volontaristico. Così immagino anche per chi va al lavoro, se per esempio è successo qualcosa a casa e quella cosa lì incide sul lavoro che fai. Volevo capire meglio il non barare.

 

Giancarlo Ronchi

Non barare non vuol dire che non sbagli ma che se ti accorgi non bari e magari dici: “Ragazzi scusatemi” o magari ti metti a giocare con loro e quando ti accorgi di questo cerchi di recuperare, nella modalità con cui stai con loro. Se ti accorgi di questo e continui a essere arrabbiato, allora inizi a barare. Invece devi provare a ripartire in un modo che li coinvolge di più e allora vedono che anche tu prendi un’altra spinta perché ti sei reso conto. Il problema non è non essere mai arrabbiato, i ragazzi lo capiscono, come fanno con l’insegnante quando entra in classe. Il problema è non barare. Il problema della vita non è non sbagliare, ma bisogna rialzarsi, ripartire. Il non barare a cui mi riferivo prima era questo: non bariamo con i nostri figli prospettandogli una vita dove viene data una risposta attraverso lo sport, il successo, la carriera, i soldi che i calciatori guadagnano. Non dobbiamo fare credere loro che questo è l’orizzonte che li può soddisfare, perché lo sappiamo che non è vero, che non basta. Fare il massimo ma sapendo che il cuore desidera ancora di più e nessuna di queste cose può compierlo, ma neanche la ragazza, il successo, la laurea. Tu sei al lavoro con loro su questo.

 

Mattia Fenili

Vi ringrazio perché mi sembra che avete toccato i punti che ci interessavano e io torno a casa con uno sguardo cambiato. Mi sembra che un lavoro sia il modo più vero e interessante rispetto a quello che ci siamo detti. Spero che anche voi genitori possiate guardare i ragazzi rispetto al valore di cui abbiamo parlato e quindi che possiamo aiutarci noi allenatori, dirigenti e la società ad andare insieme verso questa strada. Questa mi sembra anche la cosa più entusiasmante.

 

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